“Il tatuaggio (derivato dal francese tatouage, a sua volta dal verbo tatouer, in italiano “tatuare”, e questo dal termine anglosassone tattoo, adattamento del samoano tatau) è sia una tecnica di decorazione pittorica corporale dell’uomo, sia la decorazione prodotta con tale tecnica. Il tatuaggio è stato impiegato presso moltissime culture, sia antiche che contemporanee, accompagnando l’uomo per gran parte della sua esistenza; a seconda degli ambiti in cui esso è radicato, ha potuto rappresentare sia una sorta di carta d’identità dell’individuo, che un rito di passaggio, ad esempio, all’età adulta”. (Wikipedia)
Utilizzato già all’epoca degli Egizi, il tatuaggio era particolarmente diffuso all’epoca dei Romani (veniva utilizzato dai padroni per marchiare i propri schiavi) e durante la prima fase del Cristianesimo e nel Medioevo (quando i pellegrini usavano tatuarsi simboli religiosi in ricordo dei monasteri visitati). Il tatuaggio fu vietato espressamente da Papa Adriano I nel 787 durante il Concilio di Nicea.
Nel 1876 è Cesare Lombroso a parlare di tatuaggi nel saggio L’uomo delinquente, attribuendo l’imprimersi simboli sulla pelle alla degenerazione morale tipica dei delinquenti.
Solo alla fine degli anni ’60/ primi anni ’70 il tatuaggio si diffonde tra i giovani e diviene emblema della cultura hippy e della ricerca di libertà.
Oggi sono moltissime le persone che hanno impresso sulla propria pelle un ricordo, un messaggio, una persona amata, un’esperienza vissuta, ma nonostante ciò sono ancora molti i pregiudizi nei confronti del tattoo.
In ambito lavorativo ad esempio, coloro che sono tatuati non sono visti sempre di buon occhio e spesso sono costretti a nascondersi. Da questa idea nasce la campagna spagnola “L’apparenza inganna”, che mostra professionisti e lavoratori vestiti da lavoro e nella vita di tutti i giorni. I loro tatuaggi li rendono forse meno professionali? A noi non sembra proprio. Giudicate voi!